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Le “imprese” Visconti-Sforza

Scritto da  Franca Guerreri

Sotto forma di sole raggiante, l’impresa di Giangaleazzo troneggia nella vetrata absidale del nostro Duomo. Il Duca è come il sole, fonte di vita per i suoi sudditi ed emblema di giustizia. Come il sole separa la luce dalle tenebre, così il Signore di Milano esercita la giustizia, separando il bene dal male. Ma c’è di più: legittimato il suo potere nel 1395 grazie ai 100.000 fiorini d’oro sborsati all’imperatore Venceslao (l’aquila imperiale s’inquarterà d’ora in poi stabilmente con il biscione), divenuto un monarca a tutti gli effetti, Giangaleazzo ha trasceso la condizione umana per assumere quella divina, propria dei sovrani e dell’imperatore stesso. La sua immagine ora può fondersi con quella del Cristo-Re, sole di giustizia che, al suo sorgere, illumina il Duomo. L’impresa sottolinea lo splendore raggiunto da questo Visconti, che ha trasformato la signoria in un vero e proprio regno con tanto di diritto ereditario.

Questo grande successo è ricordato anche dal “capitergium”: un velo avviluppato intorno a un cercine, annodato oppure a cocche pendenti. Il termine mediolatino, derivato da “caput tergere”, indicava forse, in origine, una fascia usata per proteggere il volto dal sudore. In milanese è comu­nemen­te chiamato “gassa”. Si tratta del serto o infula degli antichi dominatori; conferito nelle investiture regali ed episcopali, è una conferma dei poteri sovrani, della loro valenza sacerdotale e della loro universalità. Nel giorno dell’incoronazione, il luogotenente imperiale pose sul braccio di Gianga­leazzo, che già aveva indossato il mantello di vajo e calzata la berretta ducale, un capiter­gium co­sparso di gemme del valore di 200.000 fiorini d’oro.

L’impresa del sole raggiante appare spesso ingentilita da una colombina bianca recante nel becco un cartiglio con il motto “A bon droit”. Bona di Savoja, la moglie di Galeazzo Maria Sforza, volle per sé decorata con questa bella immagine un’intera stanza, ancor oggi visibile nel Castello Sforzesco. La colombina col sole raggiante orna il messale miniato da Annovello da Imbonate che Giangaleazzo aveva donato alla basilica ambrosiana a ricordo della propria incoronazione; fra i gioielli portati in dote da Valentina Visconti, figlia del primo duca di Milano, a Luigi d’Orléans, secondo il racconto del Corio, spiccava per preziosità una collana “fatta a brievi con lettere a Bon Droyt con tortorelle diciotto d’oro e una bianca in un raggio con rubino al petto”: l’impresa del padre.

L’origine di questa impresa, già appartenente a Isabella di Valois, e del motto che la anima ci viene spiegata dal poeta di corte Francesco di Vannozzo e dal Decembrio, precettore di Filippo Maria Visconti. Entrambi li attribuiscono all’ingegno del Petrarca. In una Canzone appositamente composta per Giangaleazzo, Francesco di Vannozzo narra di aver avuto una visione durante la quale il Petrarca gli era apparso e gli aveva confidato di essere l’autore dell’impresa:

Il sole e l’azur fino
che tengon in sua brancha
quella uccelletta bianca
qual “A bon droyt” in dolce becco tene
che la sentenza mia tutta contiene.

Cos’era successo? Ai tempi della sua adolescenza, quando aveva dovuto subire le intempe­ranze dello zio Barnabò, Giangaleazzo aveva mostrato una mitezza che gli eventi storici di cui fu protagonista in seguito ci fanno pensare sia stata simulata. Comunque sia, aveva espresso al Petrarca, a lui familiare perché ospite della corte viscontea e dell’Università di Pavia, il sogno di un paese unito, in pace e non devastato dalle milizie mercenarie. La mitezza d’animo e le buone intenzioni espresse dal giovane Visconti gli accattivarono le simpatie e la fiducia del poeta, ben sensibile, come sappiamo, al problema delle “peregrine spade”. Col cuore aperto alla speranza di una pace duratura, il poeta si era accomiatato dal Visconti donandogli questo emblema augurale, che attraverso il motto sanciva la legalità delle azioni del futuro duca. Nel 1385 Giangaleazzo strinse un’alleanza con Pisani, Lucchesi, Senesi e Perugini per eliminare dall’Italia le milizie mercenarie. “Pax” garrivano i vessilli della confederazione! Ma il sogno di pace del Petrarca non si avverò e il buon diritto attribuito al duca si realizzò in una politica tirannica.

La capacità di simulazione del primo duca di Milano è confermata dall’impresa del “Morso” accompagnata dal motto “Ich vergies nicht”, io non dimentico. Questa impresa decora una lettiera e un carro che Luigi d’Orléans fece costruire per la moglie Valentina Visconti. Il morso è un invito a frenare l’impulsività del carattere e richiama alla riflessione e alla necessità d’adattamento. Alla morte di suo padre, Giangaleazzo per sopravvivere aveva dovuto adattarsi al clima di corte dominato dalla prepotenza di Bernabò e dall’arroganza di tutta la sua cerchia: si era fatto piccolo piccolo, si era finto inetto al governo, timido ed irresoluto; aveva sopportato senza batter ciglio lo zio che lo svillaneggiava pubblicamente e ne derideva la capacità di beneficare e perdonare. Vedovo di Isabella, aveva accettato il matrimonio con una figlia di Bernabò, Caterina, rinunciando a quello ben più prestigioso con Maria regina di Sicilia. Ricorderà tutto al momento opportuno.

L’atto di accusa compilato da Giangaleazzo nei confronti dello zio è assai duro: “Ipse dominus Barnabos diebus suis scientificos, laicos, chiericos e prelatos ac quoslibet virtuosos viros odio habuit et idiotas, crudeles et abiectos viros, infames (…) sempre sublimavit”. Fu ordita una congiura il 5 maggio 1385: catturato a tradimento, Bernabò fu rinchiuso nelle segrete del castello di Trezzo; vi morì non molto tempo dopo, non si sa se di veleno o per orgoglio ferito.

L’eco di una congiura fatta ai danni di un parente stretto suscitò grande emozione e scalpore. Come succede davanti a una vittima, ci si ricordò delle sue buone qualità: aveva senso della giustizia, magari ferino (la novellistica in proposito è copiosa); si circondava a corte di buffoni e poeti di non eccelsa levatura, ma aveva dimostrato sensibilità artistica, facendo edificare, con l’aiuto della moglie Regina della Scala, la chiesa omonima e disseminando di costruzioni il territorio lombardo. In suo ricordo ci restano la chiesa di Santa Maria Rossa in Monzoro e il castello di Pandino.

Fonte: www.storiadimilano.it

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