• Monsignor Pasquale Macchi, il grande restauratore
    Monsignor Pasquale Macchi, il grande restauratore Dieci anni dalla scomparsa di monsignor Pasquale Macchi, il grande restauratore del Sacro Monte sopra Varese, il vescovo cui si deve la valorizzazione di un patrimonio artistico nazionale, il santuario di Loreto: quanta riconoscenza non ancora espressa del tutto. Dieci anni senza il protagonista di un’epoca, il primo segretario ad aver accompagnato un Papa su un aereo, l’uomo al quale Paolo VI affidò una delicata e dolorosa trattativa per liberare Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse: quanta memoria storica, quanti segreti rimasti segreti. Don Pasquale parlava pochissimo, eppure avrebbe avuto molto da dire, anche su umane debolezze, viste da vicino, di tanti servitori della Chiesa universale. Una volta gli scappò una battuta sul cardinal Marcinkus, amico mai rinnegato: “Era uno che obbediva”, sibilò. Un’altra volta, sempre in un colloquio confidenziale,…

Claudio for Expo

ICH Sicav

 

Claudio Bollentini

Claudio Bollentini

L’immagine dei primi novanta profughi arrivati nell’area del dopo-Expo è la faccia di una medaglia che dall’altro lato mostra uno struzzo con la testa sotto la sabbia. Sulla questione è in corso una battaglia politica, con Maroni da una parte che attacca duramente la decisione presa dal prefetto di Milano Alessandro Marangoni, lasciando intendere che tale provvedimento sia frutto di una sorta di accordo tra lo stesso prefetto e l’allora commissario di Expo Giuseppe Sala. L’attuale candidato sindaco di Milano Giuseppe Sala ha prontamente smentito. Ma come tutti sanno, una smentita è una notizia data due volte, specialmente se a metterci il naso è Il Fatto Quotidiano che ha prontamente pubblicato stralci di un verbale datato 13 ottobre 2015 in cui il direttore generale Christian Malangone espone la richiesta della prefettura di utilizzare il campo base per i profughi. Si esprime fermamente contraria Alessandra Dal Verme, componente del cda nominata dal ministero dell'Economia, mentre non è registrata alcuna presa di posizione di Sala. Che però a questo punto, come minimo, non poteva non sapere. E la riunione si conclude senza una decisione ufficiale in merito e con la sensazione in chi legge che Sala abbia messo la testa sotto la sabbia. Negli auspici di Matteo Renzi, il candidato Sala doveva volare nei consensi proprio sull’effetto Expo, in realtà la manifestazione internazionale si sta rivelando un complicato percorso ad ostacoli disseminato di poca chiarezza, numeri non certo buoni e ora la questione profughi conosciuta e smentita, tutti argomenti subiti goffamente e malamente dal candidato Sala che ha dimostrato di non avere una strategia in merito se non la difesa d’ufficio del suo operato, non è mai riuscito infatti a dare risposte perentorie e convincenti in chiave elettorale, finendo quasi sempre per affondare nelle sabbie mobili delle risposte farfugliate, confuse e con molte contraddizioni.

Ma il punto è un altro e va ben oltre la polemica politica spicciola. Che fine ha fatto la Lombardia? Tra grida manzoniane e teste sotto la sabbia, la regione ancora una volta dimostra di non contare nulla. Sai che novità dirà qualcuno. Ed in effetti solo per rimanere nelle ultime settimane, dai frontalieri ignorati alla tragicomica vicenda di Pedemontana, tanti sono gli esempi in tal senso. Ma con la questione profughi o presunti tali in area dopo-Expo si è raggiunta una vetta di autolesionismo difficilmente superabile. Una umiliazione innanzitutto, ma soprattutto la dimostrazione di non capire nulla di sviluppo, di innovazione, di qualsiasi ingrediente un lombardo abbia presente per uscire definitivamente dalla crisi. Expo, un investimento considerevole, un ritorno di immagine e di business altrettanto importante, la città che fa sistema per risorgere, una serie di progetti fattibili pronti al lancio per il dopo e cosa fa lo Stato? Trasforma parte dell’area in un campo base per i profughi. E nessuno sa quanti ne arriveranno nel tempo. Una distruzione di valore mai vista ed immaginata da nessuno, una congiura verrebbe da pensare. Si dirà, è stato assicurato che trattasi di una soluzione tampone, temporanea, ma, come tutti sanno, in Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio. E chi si fida poi, specialmente se le rassicurazioni vengono da un parruccone di Stato nel completo silenzio di Renzi e dei suoi colonelli locali. Non reggono nemmeno le motivazioni umanitarie, chi le tira fuori fa parte di quel nugolo deleterio di buonisti pelosi con i paraocchi. Perché alla fine è sempre Milano a doversi sobbarcare la risoluzione di problemi nazionali? Una città tra l’altro già martoriata a sufficienza negli ultimi anni da questo problema-emergenza, con periferie allo sbando, situazioni conclamate di disagio ovunque, accampamenti di clandestini in ogni dove. Cornuti e mazziati verrebbe da dire. Manteniamo il paese, siamo depredati ogni anno di cifre folli, un residuo fiscale di oltre 50 miliardi di euro annui regalati allo spreco nazionale e ci rifilano pure questa zavorra. E dove la lanciano? Nel bel mezzo dell’area più pregiata della regione oggetto di progetti innovativi, scientifici, industriali di alto valore. Non è masochismo, è uno sfregio all’area più sviluppata del Paese, un insulto. E tutti con la testa sotto la sabbia, quelli che hanno il potere di decidere. A Roma, non a Milano. La vulgata a sinistra propone il solito mantra del centrodestra, o meglio, della Lega, al governo per tanti anni ed incapace di portare risultati epocali per il territorio. Vero sicuramente, ma ora, e da tempo immemore, tra finti tecnici e sinistri autentici ben altri stanno governando e di risultati in chiave lombarda non se ne vedono. Anzi, qualsiasi provvedimento è vistosamente penalizzante. E purtroppo con conseguenze a lungo termine. E io pago… come diceva il Principe de Curtis.

Quando un politico, un giornalista, un imprenditore, un opinion leader qualsiasi spezza una lancia a favore dell’industria italiana parla sempre di Pmi, di capitalismo familiare, di filiere e distretti produttivi. Non c’è che dire, la spina dorsale della nostra economia e quindi del nostro benessere è proprio da ricercare nel pulviscolo di centinaia di migliaia di medie e piccole aziende soprattutto ubicate in Val Padana. Un punto di forza, ma anche di chiara debolezza se mancano le grandi aziende, i grandi gruppi industriali. Che in Italia appunto non ci sono o sono troppo pochi. Siamo maledettamente piccoli, quindi marginali. Sfoglio alcuni report in una riunione organizzata da una grande banca, leggo che Samsung e Philips da sole brevettano più dell’intera industria italiana. Sarebbe meglio dire lombarda, una regione che da sola vale più di un terzo dei brevetti nazionali. Una nota positiva c’è, i nostri brevetti crescono ad un buon ritmo tendenziale, mi sembra di ricordare intorno al 9-10% nel 2015 rispetto all’anno precedente. Quando si esce dal tunnel di una crisi è un dato confortante sulla capacità di voltare pagina, esprime reattività, nuove idee. Peccato che in termini assoluti i brevetti siano pochi. In una ideale classifica di brevetti per milione di abitante, l’Italia compresa la Lombardia è al 18° posto mondiale, la Lombardia da sola sarebbe al 13°. La Lombardia in classifica è a livello della Corea del Sud, l’Italia fuori dalle potenze economiche ed industriali che contano ed in compagnia di paesi emergenti di medio livello e scarso peso industriale. Guardiamo col binocolo chi ci sta davanti, non tanto gli Usa, ma i vicini partner europei. La Francia brevetta il triplo di noi, la Germania addirittura sei volte tanto. I motivi del gap sono innanzitutto da ricercarsi nelle caratteristiche delle nostre imprese, piccole, non fanno rete, sottocapitalizzate, fanno pochi investimenti in ricerca e sviluppo. Per non parlare del sistema che non aiuta tra burocrazia invadente, fisco eccessivo, infrastrutture carenti. Il piccolo brevetta di meno forse perché oberato da tante altre incombenze, o meglio inefficienze, costi inutili. Noto che il top italiano di brevetti è stata la Indesit, ora diventata, guarda caso, americana, con 107 brevetti. Il centesimo gruppo nella classifica mondiale di chi brevetta ne totalizza quasi il doppio, Philips 22 volte di più. Giriamola come volete, ma non contiamo nulla. Sopravviviamo con lo stile, il design, la capacità di adattamento a situazioni mutevoli, una certa flessibilità e tanti trucchi più o meno estemporanei, a cominciare dalle delocalizzazioni. I grandi competitor mondiali innovano non solo dall’interno, ma anche acquisendo brevetti altrove, ospitando le eccellenze a casa loro. Il modello Silicon Valley, tanto per fare un esempio, ma nell’industria che fa i numeri nel mondo questo accade abitualmente. Noi formiamo, investiamo sulle nostre nuove leve e poi gli startupper vanno in California ad affermarsi e a brevettare il prodotto del loro ingegno. Da ultimo, ma non meno importante, acquisire di nuovo, migliorare, la cultura industriale, riposizionare al centro dell’economia la manifattura. Non sono replicabili le condizioni di cinquanta o cento anni fa, quando l’Italia passò prima con gradualità, poi con veemenza da paese agricolo e arretrato a potenza industriale, ma è solo con il ritorno alla manifattura, ovviamente adeguata ai tempi, che possiamo competere nella muscolosa lotta per l’innovazione e per contare nel mondo. Deve essere una priorità, l’imperativo. Sono tendenze in senso opposto quelle che purtroppo fanno cronaca e che preoccupano. L’arretratezza dello Stato, l’indifferenza della politica, il torpore dell’opinione pubblica ci stanno privando delle condizioni per poter ripartire veramente dopo la crisi e crescere. C’è poco da stare allegri quando sul sedime della gloriosa Alfa Romeo di Arese non si trova di meglio che aprire un grande centro commerciale piuttosto che nell’area di Expo a Rho un parruccone di Stato non immagina di meglio che un centro di accoglienza per migranti clandestini. Svegliamoci prima che sia troppo tardi.

Il nostro osservatorio che monitora quotidianamente le relazioni Lombardia-Ticino rileva due novità di taglio squisitamente politico per quanto riguarda la querelle dei lavoratori frontalieri. La prima concerne il tavolo frontalieri in Regione, la seconda la convocazione di un incontro dei sindacati sul tema. Per quanto riguarda l’ambito che spetta a Regione Lombardia abbiamo raccolto come d’abitudine la dichiarazione dell’assessore Francesca Brianza, questa volta appunto a conclusione dell’incontro tematico legato ai rapporti transfrontalieri organizzato da Regione Lombardia, nel contesto della terza edizione dell’evento “Dillo alla Lombardia”. “Esprimo soddisfazione per il tavolo di quest’oggi, a cui hanno partecipato interlocutori autorevoli e preparati. Queste occasioni ci danno lo stimolo per proseguire il lavoro nei prossimi mesi onde costruire un dialogo e un rapporto costruttivo con i vicini di casa elvetici”. La kermesse prevede l’incontro con gli stakeholders nei diversi settori in cui Regione opera: in questo particolare caso l’Assessore si è incontrato e ha raccolto le istanze di sindacalisti, associazioni di categoria, frontalieri, Sindaci. Le tematiche sollevate durante il tavolo di lavoro hanno toccato punti fondamentali cari ai lavoratori frontalieri: Lia (Legge sulle Imprese Artigianali), problematiche relative al traffico e alla viabilità, trasporti transfrontalieri, infrastrutture, tassazione, nuova imposizione fiscale, accordi bilaterali, lavoro, dumping salariale, ristorni. “In questa partita-continua l’assessore Brianza-non si deve sottovalutare il ruolo della Regio Insubrica, ente di dialogo tra Regione Lombardia, Canton Ticino e Regione Piemonte; i tavoli che costituiremo saranno infatti fondamentali per trovare una sintesi indispensabile per la risoluzione delle varie problematiche legate ai transfrontalieri.” “Ricordo-precisa l’assessore-che regione Lombardia non può intervenire su tematiche di politica estera ma il Presidente Maroni intende convocare in Regione tutti i parlamentari Lombardi per sensibilizzarli sulle tematiche che riguardano i territori di confine e per fare fronte comune, sottoponendo loro le problematiche che scaturiscono anche da incontri importanti come quello di oggi”. “Raccolgo gli spunti di discussione che sono emersi questa mattina e garantisco l’impegno costante di Regione Lombardia nell’azione di monitoraggio e in quella di sollecitare e mobilitare il Governo ad intervenire in materia”. In sintesi, la Regione non molla la presa e garantisce l’impegno a seguire il dossier anche se abbondano un pò troppo le frasi di rito e le dichiarazioni d’intenti. Non resta che sperare che il dibattito e l'attenzione porti a qualche tipo di risultato concreto. Naturalmente se guardiamo il bicchiere mezzo pieno, se invece passiamo al bicchiere mezzo vuoto non possiamo non ricordare che il pallino è in mano al governo Renzi. Il convitato di pietra nella questione frontalieri. Ed è proprio su questo aspetto che ci colleghiamo alla seconda novità sopra menzionata, che si presta purtroppo ad una lettura in termini non proprio positivi per i frontalieri. Alla vigilia del FrontierDay del 2 aprile prossimo, i sindacati tutti, italiani e svizzeri, hanno organizzato, pare però su input della Cgil,  una riunione alla presenza di Vieri Ceriani, il capo negoziatore per conto del governo italiano. Si fa espressamente riferimento nell’invito ufficiale alla confusione e alla disinformazione mediatica sull’argomento (sic!) e, tra voci contrastanti e incertezze, in quella circostanza, secondo i promotori, si cercherà di fare chiarezza. Il fatto però di organizzare questo evento il giorno prima del Frontierday ha il sapore della normalizzazione e della necessità di disinnescare in qualche modo la mina Ponte Tresa. Una iniziativa si immagina suggerita dal governo tramite i solerti ed ossequiosi colonelli locali. L’incontro infatti, guarda caso altra coincidenza, si tiene a Malnate (VA), roccaforte renziana alle porte di Varese. Il cui sindaco Samuele Astuti, segretario provinciale del Pd, è pure in campagna elettorale per ottenere la riconferma. A pensar male si fa peccato, ma si azzecca, come diceva qualcuno che la sapeva lunga in fatto di fregature.

In qualsiasi attività umana occorre molte volte toccare il fondo per risalire. Un passaggio quasi sempre inevitabile per trovare le motivazioni, le idee, gli stimoli, le strategie per voltare pagina ed aprire una fase nuova. In politica non è invece sempre così, la spinta per innovare e cambiare registro è spesso e volentieri da ricercare in altre cause. Ovvero in quei momenti in cui l’acuirsi inesorabile dello scontro politico e dialettico porta gli attori coinvolti ad immaginare scenari diversi, dalle contingenti e immediate uscite di sicurezza alle vere e proprie fasi politiche nuove in cui si rinnova il personale politico, si rivedono radicalmente programmi, obiettivi e alleanze. E’ un po’ quello che sta accadendo nel centrodestra in queste settimane in vista delle elezioni amministrative di giugno, ma con un occhio alle politiche prossime venture. Delle due l'una. Da una parte il modello Lombardia, declinato appunto a Milano e a Varese per rimanere nei centri più importanti, in cui si riproduce lo schema che tiene in piedi la giunta regionale cercando però di inserire alcune novità nella prospettiva di porre le basi per scenari in qualche modo innovativi. Si cerca di cambiare nella continuità. In sintesi: le diversità diventano risorse e il collante della coalizione è una persona, il candidato sindaco, prescelto al di fuori dei tradizionali steccati partitici. Stefano Parisi a Milano e Paolo Orrigoni a Varese (vedi foto con Matteo Salvini) interpretano molto bene proprio questo copione. Dall’altra c’è il modello Torino e Roma, la deflagrazione del vecchio centrodestra, irrimediabilmente diviso tra la componente a destra,  leghista-lepenista, e la componente al centro della vecchia coalizione. Nel primo caso, in Lombardia, si registra oggi l’eccezione, non la regola, che è invece Roma o Torino. A Milano non si può rompere per il semplice fatto che un minuto dopo salterebbe la Regione a guida leghista, una guida non salviniana come è quella di Maroni, ma fino a quando la Lega è quella che vediamo oggi, il giocattolo non si deve rompere, pena l’effetto domino che colpirebbe in primis il Veneto e poi tante amministrazioni locali.

La nuova Lega, o come si chiamerà in futuro, nasce quindi a Roma sulla falsariga del movimento lepenista in Francia. E’ una manovra prettamente politica, oserei dire di palazzo. Non regge la favola del rottamatore, non si capisce infatti come può un signore che ricopre incarichi dal 1993 rottamare chi è entrato in politica nel 1994. E l’età anagrafica, 42 anni contro 80 non sta in piedi, in politica conta ben altro. Negli Usa si contendono la nomination democratica una quasi settantenne e un settantacinquenne. In gioco c’è ben altro degli slogan ad effetto. Nella prospettiva salviniana il centro destra alle politiche del 2018 dovrebbe essere a trazione leghista-lepenista con lui stesso ovviamente alla guida, basta con le marmellate degli ultimi venti anni. La parte moderata può solo accodarsi, trattare una resa laddove gli scontri sono più accesi. Ma non sarà così e i prodromi li vediamo proprio in queste ore. Per il semplice fatto che una Lega Nazionale è sondata sonoramente perdente contro il centrosinistra renziano, basterà vedere i numeri alle elezioni a Roma. Magari Salvini può cogliere tante piccole vittorie nelle battaglie locali, ma la guerra per le politiche è persa. Ora come non mai in passato l’area moderata è chiamata veramente all’appello, per avviare e spingere una vera rivoluzione liberale. Quello che abbiamo sentito quasi sempre solo a parole nel ventennio berlusconiano. Un polo liberale, sicuramente d’opposizione a Renzi, ma non in modo antipolitico, senza derive lepeniste, quindi senza lasciare spazio a demagogia, populismo e politica urlata. Sicuramente in Lombardia la strada è tracciata, insistere ed investire politicamente su soggetti come i sopra ricordati Parisi e Orrigoni, allargare lo spettro dei partiti alle migliori forze moderate che stentano ad essere coinvolte e di conseguenza insistere ed investire sulle liste civiche del sindaco, un ottimo strumento per questo fine. Dialogare con la Lega, quella non solo più ragionevole, ma oserei dire quella di vecchio conio, destinata peraltro ad essere via via emarginata dal nuovo corso salviniano. Le vicende Roma e Torino non sono incidenti passeggeri, ferite guaribili in pochi passaggi, sono il segnale di una deriva che nei mesi prossimi diventerà sempre più marcata. La capacità di reazione a questo fenomeno la vedremo innanzitutto nell’ambito di Forza Italia, dove le forze autenticamente liberali dovranno far sentire il loro peso. La solita voce che ricorre spesso di un Berlusconi che si ritaglia il ruolo di padre nobile, che abbandona il fronte operativo della battaglia a favore di personaggi alla Del Debbio, che dovranno necessariamente emergere prima nel partito e poi alla guida della coalizione, deve finire in testa all’agenda politica dei prossimi mesi. Mediazioni, dilazioni, sotterfugi, compromessi o far finta che non sia successo niente sperando che finisca a tarallucci e vino, a questo punto della diatriba, porta sicuramente a fondo. Staremo a vedere chi la spunterà, il pragmatismo e la lucidità di vedute, ovvero il modello Lombardia, o l'ideologia, l'interesse di bottega, l'identità dei singoli partiti e la politica con i paraocchi. Ne va non solo della sopravvivenza immediata del centrodestra, ma anche e soprattutto del futuro dello schieramento.

Tra le persone note che i varesini nella seconda metà del Novecento hanno conosciuto, o per lo meno ne hanno sentito parlare, c’è sicuramente Giulio Contreas, il comandante. Piuttosto insolito e originale vedere un marinaio aggirarsi in una città prealpina che con il mare ha poco a che spartire. Contreas era infatti originario di Formia. Non ricordo il motivo per cui finì a Varese, ma vi trascorse più di mezzo secolo della sua lunga esistenza, scomparve infatti pochi anni fa quasi centenario. Alla fine si considerava un varesino e lo affermava con orgoglio. Il comandante lo si vedeva spessissimo in giro per la città, era un presenzialista, dal carattere gioviale, non mancava un appuntamento di reduci e qualsiasi altra ricorrenza pubblica, ma la sua notorietà era legata alla nascita della Lega Navale a Varese nel 1964, con base alla Schiranna ed in tempi più recenti nella caserma austriaca di punta San Michele a Laveno. Il suo era soprattutto un ruolo educativo ed evocativo, non avvicinava semplicemente i giovani alla vela e allo sport, ma trasmetteva loro la voglia di mare e di marineria, come fosse una missione. Quando qualcuno intraprendeva la carriera militare o andava per mare per altri motivi, gli si illuminavano gli occhi, provava una soddisfazione appagante e non finiva mai di ripeterlo. Lo conobbi proprio in quel frangente, nella Lega Navale, mi appassionò alla vela e alla cultura del mare e della navigazione. Mi battezzò con i Mattia, la gloriosa famiglia di catamarani progettati dal figlio Enrico e ammetto che il debole per i multiscafi che ho ancora oggi è dovuto solo a lui. Lasciò quel mondo a metà anni 80. In seguito, a causa dell’età avanzata, si diradarono le presenze e gli impegni in città. Lo andavo però a trovare volentieri a casa sua in via San Pedrino angolo via Sant’Imerio, un grandissimo appartamento che divideva con la moglie, immerso tra mobili d’epoca, fotografie, documenti, scartoffie polverose, ricordi di una vita e soprattutto una vastissima e pregevole raccolta di francobolli che curava con maniacale passione. Intanto che sistemava o ammirava le sue rarità filateliche parlava e parlava, soprattutto del periodo bellico, secondo conflitto mondiale, che lui visse interamente da ufficiale al comando di tante navi e pure di sommergibili. Con tante storie ai limiti dell’incredibile, da scriverci un libro. Ma il racconto finiva sempre lì, al Bombardiere e all’affondamento nel 1943 che lo coinvolse in prima persona. Lo descriveva nei dettagli, da militare, senza cedere al sentimento, come se avesse dovuto scrivere un bollettino di guerra. Vale la pena ricordare quel momento storico e lo faccio sulla falsariga del resoconto ufficiale.

Il cacciatorpediniere Bombardiere (Sigla BM) apparteneva alla classe Soldati seconda serie (Carrista CR – Corsaro CS – Legionario LG – Mitragliere MT – Squadrista SQ – Velite VE), entrato in servizio nel 1942, dislocava 2550 tonnellate ed era lungo 106,7 metri , largo 10,2 e con una immersione di 3,2. La velocità di 38 nodi era data da due eliche collegate a 2 turbine Belluzzo alimentate da tre caldaie tipo Yarrows (50.000 cavalli vapore).

L’unità era armata di 5 cannoni da 120/50 mm., in due impianti binati a prua ed a poppa e in impianto singoli sulla tuga centrale; 10 mitraglie antiaeree da 20/65 in 4 impianti binati (2 impianti a poppa del fumaiolo, 2 ai lati della sovrastruttura principale a prua del fumaiolo) e in 2 impianti singoli sulle alette di plancia; sei tubi lanciasiluri da 533 mm. e 2 lanciabombe antisommergibili. L’equipaggio era formato da 8 ufficiali e 220 sottufficiali e comuni.

La nave fu destinata alla scorta convogli sulla cosiddetta “rotta della morte” per la Tunisia. Nel tratto di mare tra la Sicilia ed il nord Africa, dove, furono affondate dagli Alleati ben 101 navi mercantili che trasportavano uomini, armi, munizioni e carburanti, più 42 unità militari; altre decine e decine di navi di vario genere furono affondate nei porti di arrivo di Tunisi e Biserta.

Al comando del Bombardiere si susseguirono nel tempo il Capitano di Fregata Bardelli e Giuseppe Moschini che tentarono di portare sempre a buon fine le missioni di scorta affidate alla nave. Il 17 gennaio del 1943 il Bombardiere, al comando del Capitano di Fregata Moschini e con secondo il Capitano di Corvetta Giulio Contreas, unitamente al Ct Legionario salpò da Biserta per scortare fino a Palermo la motonave Rosselli, ma (nel punto 38° 15’ Nord - 11° 43’ Est) a circa 24 miglia dall’isola di Marettimo, subì l’attacco a mezzo di siluro del sommergibile inglese United.

Il siluro scoppiò quasi in mezzeria nave in corrispondenza della plancia di comando; l’esplosione provocò lo scoppio di una caldaia e la rottura in chiglia dell’unità. La nave si spezzò in due e la parte poppiera affondò immediatamente, con il suo carico di morti e feriti alle ore 17,25.

Il timoniere rimase subito schiacciato tra la ruota del timone e la consolle; il comandante, benché ferito, tentò di liberare il suo marinaio, ma entrambi affondarono con la parte prodiera dell’unità spezzatasi in due. Il Capitano di Fregata Giuseppe Moschini fu insignito con Medaglia d’Oro al Valor Militare “alla memoria”.

Molti marinai perirono nell’esplosione, altri cercarono di salvarsi sulle poche scialuppe e zatterini di salvataggio rimasti in efficienza. Nella confusione generale del naufragio si verificarono molti episodi di valore e di umana solidarietà ben descritti dai resoconti dei superstiti tra i quali Contreas. Il Capo Stereometrista di 1° Classe Giuseppe Chiesa di Castagnole Lanze (Asti), lanciato in mare dallo scoppio, benché ferito gravemente, rinunciava all’aiuto di un marinaio per poter raggiungere una zattera, dicendogli: “Lasciatemi morire qui, non occupatevi di me, pensate agli altri più giovani e più in gamba, io sono ferito e non ne vale la pena”. Il Sottocapo Elettricista Giovanni Peluso di Napoli, raccolto su una zattera di salvataggio sovraccarica di naufraghi, invitava i compagni che cercavano di medicarlo a non perdere tempo prezioso per lui e, presentendo la morte vicina, chiedeva di essere nuovamente gettato in mare per far posto ad altri naufraghi appoggiati intorno alla zattera: “Muoio. Buttatemi in mare. Lo so che debbo morire. Date il mio posto ad altri. Ho la gamba rotta, non mi posso salvare”; queste furono le sue ultime parole.

Il Direttore di tiro Tenente di Vascello Emanuele Revello di Nervi (Genova) rinunziava al posto occupato sulla zattera di salvataggio sovraccarica, a favore di altro marinaio sopraggiunto nel frattempo. Unitamente al Marinaio Elettricista Ermanno Fugolin di Marano al Tagliamento ed al Tenente del Genio Navale Amodio Spartaco di Bari, furono insigniti con Medaglia d’Argento al Valor Militare “alla memoria”. Per il loro eroico comportamento furono insigniti di Medaglia di Bronzo al Valor Militare: il Capo Meccanico di 3° Classe Giovanni Caradonna di Bari; il 2° capo Meccanico Armidoro Foggi e appunto il Comandante in seconda Capitano di Corvetta Giulio Contreas.

Alla fine i superstiti furono 3 ufficiali e 45 tra sottufficiali e marinai, su un equipaggio di 223 uomini. Risultarono morti o dispersi, oltre al comandante Moschini, 8 ufficiali e 166 tra sottufficiali, sottocapi e marinai.

L’attenzione dei milanesi, o per lo meno di quelli che seguono assiduamente e con attenzione le vicende in divenire e gli intrecci volatili di relazioni ed interessi nel risiko del potere a Milano, è comprensibilmente distratta dalla politica e dalla campagna elettorale in corso. Non che la politica o la stessa corsa per la conquista di palazzo Marino siano estranei alle dinamiche della formazione e del mantenimento del potere sotto la Madonnina, anzi, ma è da sempre la finanza il vero baricentro o il crocevia della Milano che conta, ora appunto un po’ oscurata dal duello Sala-Parisi. Un mondo tradizionalmente paludato, riservato, incline a stare dietro le quinte piuttosto che davanti alle luci della ribalta. Si fa notizia quando si concludono grandi operazioni o quando certi scontri anche personali si fanno particolarmente accesi e duri, per non parlare delle notizie che girano intorno alla Borsa nei momenti caldi piuttosto di quelle date in occasione di novità importanti sugli assetti dei grandi gruppi industriali, finanziari e bancari. Tra i personaggi che tengono banco negli ultimi mesi, sempre al centro di rumors di qualsiasi genere, c’è Andrea Bonomi. Un baluardo della finanza milanese o un pigliatutto, a seconda dei punti di vista, nipote di Anna Bonomi Bolchini e figlio di Carlo, erede quindi di una nota dinastia imprenditoriale tra industria, immobiliare e finanza. Nel caso di Andrea gli obiettivi sono focalizzati sul private equity attraverso Investindustrial. Autentica macchina da guerra nel settore, liquidissima, con potenzialità di investimento sconosciute alle nostre latitudini. Poche settimane fa è stata chiusa la raccolta del VI fondo a oltre 2 miliardi di euro, ma c’erano lettere d’intenti di investitori per oltre 6 miliardi di euro. Questo per dare l’idea dello spessore e della credibilità dell’Andrea Bonomi investitore. Questi numeri lo pongono infatti al centro di qualsiasi indiscrezione su qualunque operazione richieda l’intervento di un fondo di private equity. Il primo indiziato su tutti i dossier principali è sempre lui. Di certo oggi c’è l’esclusiva per trattare l’acquisizione della maggioranza di Artsana Chicco, ma statene certi che ne sentiremo parlare ovunque nel Sud Europa nei prossimi mesi grazie appunto alla cassa miliardaria e alla tradizionale lentezza decisionale del settore, almeno in Italia. Investindustrial guarda il Sud Europa appunto, l’obiettivo sono le aziende non quotate di medie dimensioni. Sono sicuro che a piacere agli investitori sia soprattutto l’approccio industriale dei fondi Investindustrial oltre che ovviamente il track record degli altri fondi della stessa casa o anche le buone capacità relazionali degli investitori. Conta tutto per ottenere successo, ma il futuro del private equity è legato proprio alle competenze industriali di chi se ne occupa. Funziona, ovvero rende, se gli investimenti sono finalizzati ad una logica industriale, se vengono pianificati con la testa di un industriale. Da questo aspetto dipendono tempistiche, maggioranze, way out e quant’altro fa parte degli ingredienti del buon investimento. E’ il mantra che sentiamo ripetere fino alla noia ovunque, nelle presentazioni delle banche d’affari e dei fondi, nei convegni e nelle interviste nei giornali. La realtà è spesso e volentieri diversa. I fondi di private equity abbondano di professionisti che saranno sicuramente eccellenti in ambito finanziario, ma spesso e volentieri non conoscono le aziende, per non parlare del lato industriale dell’operazione, un lato oscuro quasi per tutti. La conseguenza è quella che vedono tutti, anche i non addetti ai lavori e gli imprenditori, un settore che appare imballato, lento, in ritardo o mai cresciuto. Eppure Milano, la Lombardia e il Nord Italia sono, o sono ancora, un importante bacino di aziende industriali a proprietà familiare, mediamente importanti come dimensione, quasi sempre sottocapitalizzate, con evidenti delicati problemi di successione che mettono a repentaglio la continuità aziendale. I dossier quindi non mancano o non mancherebbero, c’è invece un deficit negli investitori che non è di liquidità, ma di cultura. Ben vengano quindi i fondi come Investindustrial che, oltre ad investire e scommettere sul sistema manifatturiero nostrano, favoriscono e aiutano la crescita della cultura industriale nel settore finanziario degli investimenti.

E alla fine nel centrodestra, tra Lega e Forza Italia, tra Salvini e Berlusconi, è deflagrata rumorosamente, e forse nel modo e nel momento peggiore, la bagarre sulla questione leadership della coalizione. E nel bel mezzo della campagna elettorale per le amministrative per giunta, ormai chiaramente utilizzate solo come primarie per le elezioni politiche prossime venture. Già l’anno prossimo? Chi lo sa. Intanto assistiamo ad un grande scontro tattico, con poco di strategico e tanto di muscolare, battutacce e cafonate comprese. Per non parlare del contorno immancabile di parole date e rimangiate, di riconoscenza dimenticata, di trappole e fregature varie costruite ad arte per demolire o contenere avversari interni. Con il popolo dei militanti intento solo a dividere il mondo tra presentabili ed impresentabili, quando in politica conta ben altro. Purtroppo non le idee come in questo caso, ma solo la disperata difesa delle proprie posizioni e la conquista della leadership della coalizione. Costi quel che costi. Sugli aspetti reputazionali dei contendenti o di chi è all’origine dello scontro si sorvola. Come diceva un vecchio e sornione maestro democristiano, se in politica guardi la reputazione delle persone per costruire le tue amicizie, resti da solo. Quanto sono simili sinistra e destra in questo nuovo medioevo italico, crepuscolo della politica e dei contenuti, per non parlare della mancanza di statisti, dell’assenza di visione e di progetti epocali. L’epicentro di questo scontro non poteva che essere a Roma, la suburra della politica politicante in cui va in scena da tempo immemore il peggio che partiti ed istituzioni sono in grado di mostrare. A Milano si litiga, ma si fa, a Roma si litiga e si disfa.

Un vincitore in questa partita a destra c’è ed è sicuramente Matteo Salvini. Ma andiamo con ordine. Le elezioni amministrative dovevano servire al segretario della Lega per consolidare la leadership nel centrodestra, raccogliere una buona messe di voti e nel contempo recuperare Forza Italia. Non si poteva infatti immaginare di andare alle politiche con i forzisti ridotti elettoralmente ai minimi termini. Il corollario a questo teorema era la concessione di una serie di candidati sindaco di taglio civico o politicamente equidistanti sui quali Forza Italia poteva ricreare militanza e consenso, magari attraverso lo stratagemma delle liste del sindaco ottimo strumento per coinvolgere, aggregare persone che con la politica non avevano mai avuto niente a che fare. Forse il nominativo che rientra meglio in questo disegno è Paolo Orrigoni a Varese, gli altri sono o politici o civici visibilmente e almeno culturalmente vicini a Forza Italia, da Stefano Parisi a Milano a Osvaldo Napoli a Torino, a Gianni Lettieri a Napoli. Ma le opportunità migliori per un centrodestra unito sono a Roma ed ecco che il Bertolaso tirato fuori dal cilindro berlusconiano è stato ritenuto un affronto, oltre misura. Tradotto: Berlusconi metteva il cappello sulla leadership del centrodestra attraverso i sindaci, mettendo di conseguenza in discussione la posizione, ritenuta ormai non mediabile, di Matteo Salvini. Salta l’unità a Roma, ma anche a Torino. A Torino si da la battaglia per persa e quindi è stato facile sparigliare, a Napoli e a Milano, Salvini non ha contromosse disponibili e comunque sarebbero già fuori tempo, sarebbe un vero e proprio suicidio, meglio stare fermi. Berlusconi ha sottovalutato la Lega, primo clamoroso errore, solo a Roma Salvini aveva infatti a disposizione una contromossa, un asso nella manica e l’ha ovviamente sfruttato appena ne ha avuta l'occasione. Una carta che si chiama Giorgia Meloni. Un perfetto capro espiatorio in caso di sconfitta, una altrettanto perfetta utile idiota in caso di vittoria. Come dire, se si perde a Roma è colpa della Meloni e della testardaggine di Berlusconi, se si vince, ho vinto io e la Meloni può solo ringraziare. Ora si aspetta la contromossa di Berlusconi. Che, se ancora lucido, dovrebbe essere cinica e perentoria, chiedere il ritiro della candidatura Bertolaso, ma anche il ritiro di Storace, appoggio alla Meloni per salvare l’unità della coalizione non tanto a Roma, ma altrove, a cominciare da Milano dove la sorpresa Parisi sta volando nei sondaggi e potrebbe quindi riservare una insperata vittoria, che a questo punto sarebbe da leggere come una rivincita per l’ex Cavaliere. Viceversa, persistere su Bertolaso e arroccarsi ,significa isolarsi e accelerare il declino definitivo della propria leadership.

Ma sono sempre i prezzi da pagare l’argomento più spinoso da affrontare nelle competizioni politiche. Conta si vincere, ma conta di più il come, a che condizioni e a scapito di che cosa. Matteo Salvini è il classico leader che è abituato a vincere da solo, ma da solo molte volte non riesci a capire dove metti i piedi e non c'è qualcuno che ti precede per individuare le trappole. Non è certo Flavio Tosi la minaccia più reale e concreta, nemmeno a Roma dove il veronese penserebbe addirittura di candidarsi, gli avversari se li trova in primis nella Lega stessa, e sono sempre di più, ma non è una novità. Ora dovrà guardarsi anche intorno, soprattutto in Forza Italia. Il primo trappolone sono le elezioni amministrative a Milano. Salvini vuole fare il capolista nella lista della Lega ed ecco il grande impegno di Forza Italia per sostenere la propria capolista Maria Stella Gelmini che sarà votata da tutti. Due preferenze di genere differente, tutti i candidati uomini in abbinamento con lei. Data la maggiore consuetudine al voto di preferenza in Forza Italia rispetto alla Lega, ecco profilarsi un confronto o braccio di ferro interessante ed in cui Salvini potrebbe anche perdere. Il segretario leghista fiuta l’aria e già si parla di forfait a Milano. Dopo non aver rischiato candidandosi a sindaco, ora scantona anche dalla lista? Non un gran biglietto da visita per le prossime politiche.

Ieri a Milano in via Idro è andato in onda per l’ennesima volta lo spettacolo del fallimento di decenni di politica sui nomadi e sulla accoglienza e l’integrazione di queste popolazioni. Una responsabilità che è trasversale, un problema che è stato rimpallato negli anni da una amministrazione all’altra sperando evidentemente che fosse sempre qualcun altro a rimanere con il cerino acceso in mano. Lo sgombero di un campo nomadi non è mai una operazione semplice sia dal punto di vista umano sia dal punto di vista del ricollocamento di chi vi abita. Per non parlare dei costi. 400mila euro solo per trovare una sistemazione agli abitanti del suddetto campo di via Idro. Sembra che dal 2008 al 2015 a Milano siano stati investiti addirittura 25 milioni di euro per la comunità rom, secondo quanto ha dichiarato Maurizio Pagani, presidente di Opera Nomadi a Il Fatto Quotidiano. Una cifra folle che non ha nessun riscontro concreto nella efficacia di scelte che si sono sempre rivelate parziali e fallimentari. Soldi mal spesi, in poche parole. Dal punto di vista generale è impensabile che nel 2016 una città come Milano debba sopportare questo scempio, anche per l’immagine. Campi o addirittura veri e propri quartieri in balia dell’approssimazione, dell’indecenza, del disordine, della sporcizia. Tra maiali, galline, oche, cani semirandagi, nella fanghiglia e nella vegetazione selvatica vivono in baracche fatiscenti, senza sottostare a nessuna minima regola di igiene, pulizia e sicurezza, centinaia di persone di cui il comune non è in grado nemmeno di conoscerne l’esistenza. Nessuno riesce a dare il numero esatto dei nomadi presenti in questi campi e soprattutto di conoscere le generalità dei “residenti”. L’accoglienza a Milano è sempre stata vittima dell’improvvisazione e dell’ideologia e i pochi piani concreti si sono rivelati quasi sempre fumo o poco più. Per esempio, si parla di ricollocamento delle famiglie sgomberate. Abbiamo molti dubbi in merito, vista la storia recente. In genere si sposta il problema da un quartiere all’altro, moltiplicandone le conseguenze nefaste. Da un campo più o meno regolare e attrezzato, questa gente in genere poi vaga per la città ai margini della periferia, vive sotto i cavalcavia ferroviari, si sistema nei palazzi abbandonati o chissà dove. Di solito affiancandosi ad altre categorie sociali che vivono o sopravvivono in condizione di disagio, come i clandestini, gli pseudo profughi e i senza tetto, un universo sociale che ormai bivacca stabilmente qua e là nella città fin dentro le stazioni e i giardini pubblici o in ecomostri abbandonati come il triste recente caso di via Lattanzio insegna. I campi irregolari non devono essere tollerati per nessuna ragione. Se questa popolazione è effettivamente nomade, come dicono, i campi devono essere solamente delle soluzioni di transito. Regolari, attrezzati, decorosi. Il comune deve conoscere numero e generalità di chi vi transita. E accogliere degnamente gli ospiti, ovvero garantire accesso ai servizi igienici, alla assistenza sanitaria, alla scuola e così via. Per un periodo temporaneo proprio perché sono nomadi. Non dovrebbero esistere campi perenni o altre soluzioni prodromiche di una vera e propria segregazione e emarginazione senza ritorno. Il problema nomadi si collega alla questione legalità. All’interno di quelle comunità in tanti vivono di espedienti ai bordi della legge se non oltre. Un argomento che si allarga verosimilmente a tante altre condizioni urbane tipiche soprattutto di certi quartieri periferici, semiperiferici e, ahimè, da un certo tempo a questa parte anche vicino ai margini del centro. Periferie allo sbando, autentici ghetti, quasi sempre al di fuori della legge, tra violenza, degrado e abbandono. Siamo in campagna elettorale, al netto della propaganda, vorremmo sentire progetti concreti in merito. Ed evitare di continuare a vedere in futuro quello che ci è stato riservato in questi ultimi mesi e anni, dai bivacchi in porta Venezia agli accampamenti in stazione Centrale, dai campi rom alle tante Via Padova disseminate per la città.

Nella dialettica politica degli ultimi anni il termine più usato, o forse abusato, è stato sembra ombra di dubbio “rottamazione”. Utilizzato da Matteo Renzi come bandiera e simbolo nella arrembante conquista della segreteria del pd, con sfumature e sinonimi il termine è entrato nel lessico di chiunque, leader o partiti che siano, a destra e a sinistra. Rottamare o rottamazione, verbo e sostantivo utilizzati come maglio per abbattere vecchie leadership, come leva per scardinare vecchi ordini precostituiti o semplicemente tirati in ballo come una minaccia, una forma di dissuasione. Come spesso accade in politica, non sempre quello che si dice o che si vede rispecchia la realtà dei fatti e l’intento di chi predica nuovi ordini o schemi non sempre è collegato agli obiettivi e alle finalità che gli elettori immaginano. La politica è vista dai più come immobile, si nota infatti il ripetersi ossessivo di riti, di consuetudini e di comportamenti assodati. In realtà non è vero neanche questo, le fasi, le parabole di formule e carriere, viste ex post, salvo pochi casi, sono sempre relativamente brevi. Limitando lo sguardo alle elezioni locali, questo è appunto lo spettacolo che andiamo a vivere nelle prossime settimane. Non c’è partito nuovo o vecchio che sia, non c’è leader o capobastone che non si appelli al rinnovamento, al voltar pagina, alla innovazione e spesso e volentieri questi proclami sono accompagnati dalla discesa in campo di persone completamente estranee alla politica o comunque alla prima esperienza diretta. E il fenomeno non riguarda solo le liste civiche tout court, anzi, la partita la si gioca nel campo tradizionale dei partiti da sempre in lizza. Si pesca nella cosiddetta società civile, nel mondo delle professioni, dell’imprenditoria, della cultura, dello sport, del sociale, ovunque ci siano potenziali candidati che riescano a trasferire notorietà e valore aggiunto personale nell’agone politico, piccolo o grande che sia. Diciamo che il ragionamento regge per i candidati sindaco, dove appunto c’è una selezione più mirata e attenta. Lo vediamo a Milano e a Varese, gli schieramenti principali hanno puntato su figure autenticamente esterne, forse come non mai in precedenza. Candidati sindaco che, come da manuale, saranno sostenuti non solo dai partiti tradizionali, ma anche da una lista del sindaco creata ad hoc, una specie di lista civica con lo scopo di dare consistenza numerica e politica ad un background elettorale che si immagina esterno ai partiti. Ma le campagne elettorali non si vincono con le buone intenzioni, con i bei nomi e nemmeno con programmi accattivanti. Si vincono con i voti che come i soldi non puzzano e alla fine servono come l’aria. Naturalmente, come si conviene nel ripetersi di abitudini sempiterne, chiunque ha fatto politica, al netto di chi si è sporcato le mani che andrebbe cacciato senza se e senza ma, è visto come il fumo negli occhi, personaggi oscuri che vivono all’ombra della cosa pubblica, mangiatori di pane a tradimento, così almeno nella vulgata dell’antipolitica. Si potrebbe ragionare sul logorio che un incarico pubblico produce su chiunque in termini di mancanza di entusiasmo e di idee, si potrebbe parlare di opportuno e doveroso ricambio generazionale, ma in genere si fanno invece discorsi capziosi, in mala fede, buoni solo per chi cerca un qualsiasi stratagemma per trovare spazio e visibilità a scapito di altri. Sono più pericolosi certi ambiziosi nuovi arrivati o pretendenti tali rispetto all’esercito degli assidui dell’amministrazione e della politica che hanno servito degnamente la cosa pubblica, colpevoli solo di essere lì da troppi anni. La politica però trova sempre una soluzione a qualsiasi problema, un escamotage, una mediazione. La buona volontà, l’entusiasmo di tanti volti nuovi non basta di sicuro per vincere. Ed ecco magicamente farsi largo tra rottamazione e cambiamento, l’usato sicuro, purchè garantito. E passi se magari negli ultimi anni non ne hanno azzeccata una, ma è gente che sa fare politica e che soprattutto sa fare campagne elettorali e prendere voti. A Milano, Sala che cerca di ricucire con i sacerdoti della rivoluzione arancione ha questo obiettivo, oppure la probabile candidatura come capolista di lista Parisi di Gabriele Albertini ha il medesimo scopo. Ovunque sarà così, anche a Varese. A fronte di una pattuglia di specchietti per le allodole, nomi nuovi che lustreranno i simboli delle liste, ci saranno dietro schiere di habituèe della politica, dai semplici portatori d’acqua ai politici in cerca di riconferma. Funziona così e da sempre, lo sanno tutti, tranne forse chi anima le liste civiche tout court e le vestali integraliste del nuovismo. Ai quali potrebbe essere ricordato che senza la ciccia non si fa l’arrosto.

Il Sacro Monte di Varese, anno dopo anno, è sempre di più il cenacolo culturale della città di Varese. Fioriscono iniziative di svariato taglio, ma di qualità sempre eccellente. Incontri, conferenze, mostre, visite ai musei, concerti, teatro, ecc. Veramente tanto si organizza intorno al Santuario nel corso dell’anno, eventi in grado di stimolare sicuramente la curiosità e l’interesse di un pubblico sempre più vasto, anche al di fuori dell’ambito dei pellegrini che sono come noto la tradizionale ossatura dei frequentatori della montagna varesina. Tra le tante iniziative promosse, spiccano le “Conversazione al Sacro Monte” organizzate dalla Associazione Amici del Sacro Monte presso la sede associativa in via del Ceppo 5 nei pressi del piazzale Pogliaghi (quello degli autobus). Questo il programma completo, che inizia sabato 19 marzo:

Conversazioni al Sacro Monte — V Edizione

Sabato 19 marzo—ore 15:30

Chiara Palumbo—Storica dell’Arte e Guida Turistica

“E quindi uscimmo a riveder le stelle: simboli cosmologici e religiosi in provincia di Varese”

Sabato 9 aprile—ore 15:30

Gianni Spartà—Giornalista

“Non è vero che a Varese non accade mai nulla”

Sabato 30 aprile—ore 15:30

Gaetano Arricobene—Architetto

“La cripta del Santuario del Sacro Monte”

Sabato 14 maggio—ore 15:30

Federico Bianchessi—Giornalista

“Sacri Monti buddhisti, il Nepal”

Sabato 28 maggio—ore 15:30

Francesco Baggio—Medico

“Arte e malattia. Una visita medica alle statute del Sacro Monte di Varese”

Sabato 11 giugno—ore 15:30

Albertina Galli—Docente e Guida Turistica

“Itinerario Liberty da Varese al Campo dei Fiori”

Sabato 10 settembre—ore 15:30

Società Astronomica “G.V. Schiaparelli” e ospiti

“Ricordando il prof. Salvatore Furia“

Sabato 24 settembre—ore 15:30

Sergio Redaelli—Giornalista

“I papi del Sacro Monte, storie di fede e di potere tra il Vaticano e Varese“

Sabato 25 giugno—ritrovo ore 9:30 all’arco della Prima Cappella

Salita del Viale delle Cappello con Roberto Baggio, esperto in gnomonica

“Aspetti astronomici del Viale delle Cappelle”

Venerdì 8 luglio ore 21:00—Chiesa dell’Immacolata

“Riflessioni biblico-spirituali: don Luca Violoni”                                                                                        “

"Cenni storico-artistici: prof.ssa Albertina Galli”

L’Associazione Amici del Sacro Monte è stata fondata nel 1967 ed è attualmente presieduta da Ambrogina Zanzi. “Ha lo scopo di suscitare e sostenere un movimento di opinione pubblica volto alla riscoperta ed all'arricchimento dei valori ambientali e paesaggistici del gruppo montano del Sacro Monte e del Campo dei Fiori, con particolare riferimento alla salvaguardia del patrimonio storico ed architettonico, alle bellezze naturali ed artistiche dell'antico Borgo per l'Insieme dei luoghi e del territorio che dalla I Cappella culmina alla torre Ariana e va a costituire, unitamente ai rimanenti circostanti luoghi montani, uno dei complessi storico ambientali più preziosi, meritevoli di conoscenza e di tutela” (dalla presentazione).

Per ulteriori informazioni: www.amicidelsacromonte.it

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