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Enrico Molaschi: il più famoso Barbapedana

Scritto da  Roberto Leydi
Il Barbapedana di cui ci parla Boito (il più illustre e conosciuto della lunga serie) si chiamava Enrico Molaschi ed era nato a Milano il 1 gennaio del 18234. Le sue prime esperienze di suonatore e di cantante le fece però nel contado, e precisamente in quel di Paullo, dove ancora giovanotto s'era trasferito, ospite forse di alcuni parenti. Lavorava come garzone in un'osteria dove spesso faceva sosta, nei suoi vagabondaggi attraverso la pianura lombarda, un suonatore che intonava, accompagnandosi sulla chitarra, molte canzoni popolari e filastrocche ingenue. Il giovane Molaschi fece amicizia con questo musicante di strada del quale non ci è giunto il nome e da lui apprese i primi rudimenti dell'arte di suonare la chitarra e un certo numero di canzoni. È probabile che già questo suonatore si facesse chiamare Barbapedana, ma è certo che comunque nel suo repertorio aveva una filastrocca senza senso nella quale si parlava, in dialetto emiliano, d'un Barbapedana "vestito d'una gabbana", o qualcosa del genere. Dopo alcuni anni di lavoro come suonatore e cantante ambulante nella zona di Paullo (e pare con buona fortuna). Enrico Molaschi si decise a trasferirsi a Milano, con la moglie e i sette figli. Pare certo che il nostro Barbapedana abbia iniziato la sua pittoresca attività nella capitale lombarda nel 18625, stabilendosi, come ci ricorda il Boito, in Vicolo Colonnetta, a porta Tosa, e alternando la chitarra con la lesina e il trincetto del ciabattino.

Grande fu la popolarità che Enrico Molaschi, alias Barbapedana, seppe conquistarsi in pochi anni a Milano. Vestito del suo comico giubbone, con in testa il gran cappello all'italiana e a tracolla la fedelissima chitarra, Barbapedana girava le osterie a presentare il suo programma e non raramente era invitato a rallegrare i trattenimenti e le feste nelle famiglie. Nel periodo della villeggiatura lo chiamavano nelle ville in Brianza e il suo arrivo era sempre occasione per riunioni chiassose e allegre, che invariabilmente finivano con balli sotto le stelle, al suono di travolgenti polke, valzer, galop e mazurche, suonate sulla chitarra (si dice con tecnica inarrivabile) dal Barbapedana.

La regina Margherita volle conoscerlo e l'invitò nella villa reale di Monza. Lo ascoltò cantare e suonare, gradì molto i suoi lazzi mimici, si complimentò con lui e gli regalò una chitarra nuova. Un anno, poi, fu eletto re del carnevale: nella bella sala oggi scomparsa della Canobbiana, Barbapedana ebbe, per una notte, trionfo e onori ed egli, in cambio, cantò, vestito d'un manto d'ermellino e con la corona in testa, le sue canzoni più belle.

La descrizione più felice d'una esibizione del Barbapedana Enrico Molaschi è certo quella che Arrigo Boito ci ha lasciato nel saggio ricordato:

“Un formidabile strimpellamento rispose all'evocazione del poeta, uno scoppio di corde armoniche sgominate e percosse come mille cétere fossero ruinate in un averno capitombolando giù dallo scalone del paradiso. Quella fonica valanga aveva un certo che d'olimpico e di tartareo insieme, gli accordi parevano scattare di istrumenti celesti caduti fra le unghie del diavolo.6

Pensai udendo un tal baccano a non so quali arpe sataniche. Un tuono così portentoso doveva annunziare certamente una portentosa apparizione. Infatti, nell'attimo ch'io impiegai per tracannare una gorgata di vino, l'apparizione comparve. Quando riposi il bicchiere sul tavolo stava innanzi a me il suonatore dell'arpa satanica, ma il suonatore non era il diavolo né l'istrumento un'arpa. A un tratto l'amico nostro poeta disse, presentandoci con piglio trionfale il personaggio evocato "Ecco il Barbapedanna e la sua chitarra"... Il menestrello ritto dinanzi a noi volgendo le spalle al paesaggio lunare rimaneva solo nel buio. Non apparivano d'esso che i bizzarri contorni; il suo cappello di feltro all'italiana, munito d'amplissime tese e collocato verso la nuca, rendeva l'immagine d'una aureola di ombra.

Il poeta afferrò una lanterna a raggi concentrici, lasciata sul tavolo dall'oste, e rapido come un baleno ne diresse tutta l'irradiazione sul menestrello. Barbapedana stette in sulle prime immobile come in un quadro. Io tentato di raccapezzare nella memoria da quale tela di Salvator Rosa era disceso quello strano personaggio. Un tipo così gagliardo d'italiano non vidi poscia mai. L'anima balda gli si pingeva nella forza delle pupille; il sole che imbruna i grappoli delle colline brianzole aveva imbrunita la sua faccia. La vigorosa muscolatura della vite pareva riprodotta nelle membra di quell'uomo che non contava più di trent'anni7. Portava sul Mento il pizzo tradizionale de' nostri patrioti e lo portava così gloriosamente che più che una foggia di barba sembrava l'altiera coccarda del suo volto. Il colore de' suoi capelli realizzava l'estremo possibile del nero, ma i suoi occhi parevano più neri ancora. Due braccia poderose, atte a lavori d'atleta, riposavano sulla chitarra... Il chitarrista incominciò a cantare con questi due versi:

Barbapedanna el gh'aveva on gilé

Rott per denanz e strasciaa per dedree.

Una pesante risata dell'austero tedesco rispose a questo principio... Il menestrello, avvistosi che l'uditorio gli era ostile, s'interruppe, vuotò mezza bottiglia, indi, fissando animosamente il detrattore negli occhi, ripigliò il canto più coraggioso di prima.

Nella sua voce vibrava l'accento veemente della disfida. Barbapedana, prima di ripigliare per la seconda volta la ballata derisa aveva risvoltate le maniche della camicia fino quasi sotto le ascelle, come prima d'incominciare una lotta. Il muscolo bicipite del suo braccio destro era turgido d'ira, e da quella leva potente scattavano, balzavano gli arpeggi: arpeggi strappati dalla collera e dall'ispirazione... Intanto la ballata seguiva il suo cammino; era una specie di leggenda burlesca narrante i fasti di Barbapedana medesimo: egli ne aveva creato il concetto, i versi, le note, l'accento - la ballata cantava Barbapedana e Barbapedana cantava la ballata - Pure in quel suono e in quel canto tratto tratto appariva lo stile caldo e incosciente dell'improvvisazione. Ogni ritornello terminava col nome di Barbapedana, e ad ogni ritornello la voce del cantore pareva più forte, la chitarra più viva, la cantilena più ardente, il ritmo più ratto, le parole più balde. Era un crescendo portentoso.

L'onda sonora sotto le dita di Barbapedana subiva tutte le trasformazioni possibili d'una vera onda; da zampillo era diventata rigagnolo, da rigagnolo ruscello, da ruscello torrente, da torrente fiume, da fiume cateratta e continuava ad aumentare. Fra un ritornello e l'altro correva uno scherzo della chitarra sola, sempre variato, sempre nuovo, durante il quale il canto cessava. Allora si vedeva il menestrello staccare il braccio sinistro dal manico della chitarra, afferrare un bicchiere colmo di vini e trangugiarlo, mentre la mano destra continuava a suonare lo scherzo facendo "capotasto" alla rovescia, col polso sulle corde mentre le dita guizzavano adunche, rapidissime, nervose come zampe di gatto. Poi ripigliava la ballata; il vino bevuto pareva che annaffiandola la facesse divampare, come fa l'alcool sulla brace; nelle sue note scoppiettava il brillante tremolio de' pirausti e il salto della salamandra. A un tratto il canto cessò e continuò solo il suono della chitarra... V'ha nei salmi di Marcello certo "basso continuo" il quale produce un effetto terribile per la possente equabilità che lo informa. La chitarra del nostro giullare mi rammentava quel "basso". Una "dominante" e una "sottodominante" vi si alternavano nelle note profonde, gravitando pesantemente sulla tonica, quasi attratte da una forza centripeta, da un'irresistibile fatalità; quel moto di intervalli uniformi spirava realmente una calma fatale, calma di bonaccia, calma di marcia che poteva repente tramutarsi in battaglia, di bonaccia che ad un tratto poteva diventare uragano. Quella monotonia, quella monoritmia preparava, incubava qualche prodigio musicale presentito paurosamente... Ad un tratto un baleno guizzò fra le nubi che pendevano sul nostro capo, e le dita di Barbapedana guizzarono anch'esse con tale rapidità che parvero rispondere al lampo di luce con un lampo di suoni.

In quel momento m'accorsi che il "il basso continuo" era salito d'un diesis; la prima modulazione aveva avuto luogo, l'argine tonale era infranto, s'iniziava il cataclisma.

Un turbine d'intervalli cromatici veloci come il vento, dispersi come la tempesta, scoppiarono dalla chitarra; quell'arruffio d'accordi portentosi e violenti crebbe, s'enfiò, si dilatò, sempre più, sempre più, fin che giunto all'estremo sforzo possibile del fragore, il tuono dell'uragano già annunziato dal lampo, lo continuò rimbombando nell'aria e soffocandolo...8

Poi anche per Barbapedana venne l'ora triste del tramonto. I milanesi che l'hanno conosciuto, persone che oggi debbono avere più di settant'anni, lo ricordano infatti ben diverso da come ce l'ha descritto Boito. Non più un giovane gagliardo, dai muscoli d'acciaio e dal colorito acceso del contadino, ma un povero vecchio, un poco curvo, con il pizzo candido, gli occhi ancora vivi ma il gesto stanco. Anche i tempi erano mutati e la stagione dei Barbapedana stava tramontando con la fine irrimediabile del "mondo di ieri". Verso il 1890 Enrico Molaschi era ormai senza denti e non poteva più cantare. Suonava ancora con slancio la sua chitarra e i temi famosi del suo repertorio era costretto a fischiarli. Il suo ingresso nelle osterie, preceduto sempre dalla famosa marcetta che era la sua sigla, ancora suscitava piacere negli avventori più anziani e quando camminava per la strada non mancavano i ragazzini schiamazzanti a fargli corteo, ma i giovani non credevano più al piccolo semplice mondo evocato dalla chitarra e dalla voce dell'ultimo Barbapedana, relitto commovente giunto fino alle soglie del XX secolo dalle memorie dei tempi passati. Così Enrico Molaschi finì i suoi giorni al Pio Luogo Trivulzio. Fu ricoverato in via della Signora e quando l'istituto fu trasferito a Baggio9 seguì i suoi compagni nella nuova sede. Morì così alla Baggina il 26 ottobre 1911, all'età di anni 88. Dei suoi nove figli (sette nati a Paullo e due a Milano) nulla si sa. La chitarra appartenuta al Molaschi fu acquistata alcuni anni fa da Natale Gallini e ora si trova esposta al Civico Museo di strumenti musicali di Milano.10

Scomparso Enrico Molaschi qualche altro volonteroso suonatore ambulante cercò di risuscitare il personaggio del Barbapedana, ma senza fortuna. Al dormitorio pubblico di via di Breme ancora qualche anno fa riposava la notte un povero vecchio che si diceva l'ultimo Barbapedana, l'erede diretto del grande Molaschi. Girava con la gabbana nera e il cilindro, suonava la chitarra e il flauto, cantava, con voce tremula ma chiara la solita filastrocca: "E de piscinin che t'era / El balava volentera ... ".

Note

1. Arrigo Boito, La musica in piazza. Ritratti di giullari e menestrelli moderni, Barbapedana, in Critiche e cronache musicali, Milano 1931 (Questo scritto apparve nei numeri 8, 9, 14, 16, 20 della Gazzetta Musicale, edita da Ricordi l'anno 1870 firmato Tobia Gorrio).

2. Carlo Maria Maggi, Il Teatro milanese, a cura di D. Isella, Torino 1964, vol. 2.

3. G. Crespi, Le metamorfosi di canzoni e cantilene popolari e le fonti del Barbapedana, in "La Lombardia" n. 45, Milano, 14 febbraio 1913. Citato anche in: A. Visconti, I Lombardi, Milano s. d.

4. Buona parte delle notizie su Enrico Molaschi qui riferite sono state raccolte, con la pazienza e la precisione che gli sono consuete, da Sandro Piantanida. Nel suo confuso e disordinato Dizionario del gergo milanese e lombardo (Milano, s.d.), Nino Bazzetta da Vemenia cita erroneamente il nome di Enrico Molaschi come Enrico Mulacchio.

5. Vuole una tradizione popolare che nel 1848, durante le Cinque giornate, Enrico Molaschi fosse stato fatto prigioniero dagli austriaci in Castello e che da questi si liberasse incantandoli col suono della chitarra. La diceria non ha alcun fondamento di verità anche perché nel '48 il Molaschi ancora risiedeva a Paullo.

6. Chi ha conosciuto il Barbapedana Enrico Molaschi ricorda che costui s'annunciava con una specie di marcia molto gagliarda, che si sentiva di lontano ed era notissima a tutti a Milano.

7. Boito si sbaglia, perché al momento del suo incontro coll'autore del Mefistofele, tra il 1865 e il 1869, il Molaschi aveva già più di quarant'anni. La descrizione di Boito ce lo presenta però eccezionalmente giovane e gagliardo.

8. L'osteria dove si svolge questa scena era quella famosa dei Tre Mori a porta Tosa. Il "fantasioso poeta" che introduce il Barbapedana era Emilio Praga; del "dotto musicista tedesco" non ci è rimasto il nome.

9. Il trasporto dei vecchi da via della Signora a Baggio avvenne, con notevole concorso di incuriositi spettatori, per mezzo di un corteo di automobili messe a disposizione da ricchi borghesi e aristocratici. Enrico Molaschi fu portato personalmente da Umberto Visconti di Modrone. Il Barbapedana apriva il corteo cantando e suonando la chitarra sull'automobile altissima e scoperta. Di Enrico Molaschi ci è giunta anche una piccola, sbiadita fotografia che lo ritrae, già vecchio, nella nera divisa del Pio Luogo.

10. Lo strumento è descritto nel catalogo del Museo al numero 54. All'interno della chitarra vi è un curioso cartiglio che dice: ANTONIO ROVETTA Fabbricatore di strumenti armonici / a prezzi discretíssimi / abita / alla Corsía del Duomo, di fianco alla / Contrada di S. Redegonda n. 982 / in Milano / fece l'anno 1823 /

*fonte di questo testo: http://www.canzon.milan.it

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