Claudio for Expo

ICH Sicav

 

Monsignor Pasquale Macchi, il grande restauratore

Scritto da  Gianni Spartà

Dieci anni dalla scomparsa di monsignor Pasquale Macchi, il grande restauratore del Sacro Monte sopra Varese, il vescovo cui si deve la valorizzazione di un patrimonio artistico nazionale, il santuario di Loreto: quanta riconoscenza non ancora espressa del tutto. Dieci anni senza il protagonista di un’epoca, il primo segretario ad aver accompagnato un Papa su un aereo, l’uomo al quale Paolo VI affidò una delicata e dolorosa trattativa per liberare Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse: quanta memoria storica, quanti segreti rimasti segreti. Don Pasquale parlava pochissimo, eppure avrebbe avuto molto da dire, anche su umane debolezze, viste da vicino, di tanti servitori della Chiesa universale. Una volta gli scappò una battuta sul cardinal Marcinkus, amico mai rinnegato: “Era uno che obbediva”, sibilò. Un’altra volta, sempre in un colloquio confidenziale, aprì bocca sulla vicenda Moro: “Lo hanno ucciso perché aveva visto qualcuno che non doveva vedere”.
Ora, si dà il caso che questo straordinario testimone di fatti accaduti sul declino del Novecento abbia chiuso il suo testamento spirituale con queste parole: “Ringrazio Dio per avermi fatto nascere a Varese”. Sol per questo egli merita benevolenza, rispetto, affetto. Ieri l’altro la giunta comunale ha deciso di intitolargli un tratto, solo un tratto, della via del Ceppo lassù nel borgo mariano. Come non pensare che il prossimo sindaco del capoluogo andrà oltre in memoria di Macchi? Gli si dedichi una sala in una biblioteca, in un museo civico. Il gesto non costa nulla e sarebbe pertinente: don Pasquale, vissuto tanto anni in Vaticano, ha amato la grande bellezza.
Due domeniche fa ci è capitato di visitare il Sacro Monte sopra Varallo, il più imponente monumento costruito tra ‘500 e ‘600 per erigere baluardi di fede contro l’avanzata delle “eresie” protestanti. Abbiamo capito che quel bendidio di sculture, architetture, affreschi, quell’intreccio di 44 cappelle al culmine di una scalinata, non ha potuto contare su un monsignor Macchi accorso al suo capezzale. Le statue languono, le pitture sbiadiscono, le grate lignee che proteggono le scene sacre vanno in malora. E’ uno dei tanti patrimoni dell’Umanità rimasto senza soccorritori: non ci sono soldi per difenderlo dagl’insulti del tempo.
Macchi a Varese quei soldi li trovò con quattordici telefonate ad altrettante banche per far risplendere le quattordici stazioni del Rosario lungo la via disegnata dall’Aguggiari. Potere e relazioni di uno che era stato in Vaticano al fianco di un Papa amante dell’arte come Montini, si dirà. Ma anche innata capacità di persuasione, non comune abilità di farsi mendico, non per sé, ma per il bene di una contrada che don Pasquale amava. E che provocò vistosamente nella prima metà degli anni ’80 incaricando l’ateo e comunista Renato Guttuso di dipingere una “Fuga in Egitto” moderna alla Terza Cappella. Ricordate lo scandalo per quel San Giuseppe con la faccia da fedayn? Se la beatitudine dovesse essere misurata col metro dei miracoli economici, non v’è dubbio che monsignore sarebbe già stato proclamato santo, come Palo VI. Per il quale l’umile segretario mosse mari e monti affinché un pontefice a lungo schiacciato, nella considerazione popolare, da Giovanni XXIII e da Giovanni Paolo II, avesse un posto appropriato nel regno dei cieli.
Apparteneva a una fiera famiglia di antifascisti Pasquale Macchi. Era l’ultimo di nove o dieci fratelli. Conosceva le ricchezze di Santa Romana Chiesa, ma trascorse gli ultimi giorni della sua vita in un lettino sistemato dietro a una tenda in un monastero di suore di clausura sulle montagne di Lecco. Nulla in eredità ai suoi familiari, tutto il patrimonio, principalmente opere d’arte, alla Fondazione Paolo VI più alcuni legati destinati a organizzazioni missionarie.
Una serie di eventi sta per ricordare Macchi morto il 5 aprile del 2006, tre giorni dopo il primo anniversario della scomparsa di quel pontefice ch’egli accompagnò in preghiera al Sacro Monte il 2 novembre 1984. Giovanni Paolo II affrontò la salita con le forze recuperate dopo l’attentato in piazza San Pietro. Memorabile l’imbarazzo di Macchi al cospetto di tanta energia montanara. A un certo punto Wojtyla lo guardò e gli sussurrò: “Monsignore, mi dica se devo rallentare”.

*originariamente pubblicato su: https://giannispartareport.wordpress.com/

Letto 1140 volte

Claudio for Expo

ICH Sicav

 

 

 

 

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.

Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie. Per saperne di piu'

Approvo

Scrivi alla Redazione

Puoi scriverci al seguente indirizzo:

[email protected]

 

 

 

Seguici anche su:

Realizzato da: Cmc Informatica e Comunicandoti